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“Crea dipendenza”: App rischia di chiudere immedatamente | Ecco come stanno davvero le cose

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Un’app rischia di chiudere definitivamente perché crea dipendenza. Ecco di quale app si tratta e che cosa stanno facendo per farla chiudere.

Arriva Signal che è un’app di messaggistica istantanea che consente di effettuare chat e videochiamate, disponibile gratuitamente per i dispositivi Android e iOS. Per gli addetti ai lavori si dice che sia più sicura rispetto a WhatsApp e Telegram.

Ma chi è il proprietario di Signal? l’app Signal è di proprietà della Signal Foundation, un’organizzazione no profit istituita da Moxie Marlinspike, che è anche il fondatore e l’attuale CEO dell’applicazione, e Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp.

L’app nasce nel 2013, come software libero e open source sviluppato dal gruppo Open Whisper Systems e la svolta avviene quattro anni dopo, quando Acton decide di allontanarsi dall’app per passare alla corte di Marlinkspike.

Insieme hanno dato vita alla Signal Foundation con un obiettivo ben chiaro e preciso: proteggere la libertà di espressione e sviluppare una tecnologia che consenta di avere una comunicazione globale sicura tra e persone. In questa app c’è la possibilità di impostare un timer per i messaggi, in modo che si autodistruggano entro un tempo prefissato. Ma che cosa sta succedendo con un’altra app?

L’app che crea dipendenza

Tinder sarebbe creata appositamente “con caratteristiche di design coinvolgenti e simili a quelle di un gioco” con l’obiettivo di portare gli utenti ad essere in qualche modo intrappolati in un utilizzo compulsivo. Un gruppo di utenti ha voluto fare un’azione legale contro la famosa app in quanto non aiuterebbe le persone a trovare la loro anima gemella ma appunto aiuterebbe soltanto ad usarla nel modo più compulsivo possibile senza arrivare all’obiettivo vero e proprio. Il modello di business che è stato criticato è definito “predatorio”.

Tinder - cartoonmag.it Depositphotos
Tinder – cartoonmag.it Depositphotos

La società farebbe un uso deliberato di “funzionalità psicologicamente manipolative per assicurarsi di far rimanere gli utenti perennemente sull’app, come abbonati paganti”. Le app di Match quindi violano la privacy degli utenti dando la priorità ai profitti aziendali “rispetto alle sue promesse di marketing e agli obiettivi di relazione con i clienti”.

I querelanti sostengono che la società utilizza degli algoritmi nascosti e delle tecnologie potenti che fanno rimanere gli utenti agganciati alla piattaforma rendendo il suo utilizzo compulsivo. Un vortice infinito a cui le persone non trovano fine. Match si è difesa dicendo che il proprio modello di business “non si basa su metriche pubblicitarie o di coinvolgimento. Ci sforziamo attivamente di portare le persone agli appuntamenti ogni giorno e fuori dalle nostre app”.